Sardegna: non solo Vermentino e Cannonau

Quando si parla di vitigni sardi, non si può non pensare immediatamente al Vermentino e al Cannonau come “biglietto da visita” rappresentativi della Regione, rispettivamente, per i vini bianchi e per i vini rossi.

Certamente si tratta di vini d’eccellenza, che nel terroir del territorio dei Quattro Mori assumono sfumature uniche e sempre diverse, a seconda della collocazione idrogeografica e delle scelte di vinificazione adottate in cantina.
La Sardegna, però, quando parliamo di vini si può senz’altro definire un “continente” ancora in parte da scoprire, sorprendendosi per etichette poco conosciute al pubblico degli appassionati. E’ il caso, ad esempio del Mandrolisai e del Carignano, in cui ci siamo imbattuti curiosando tra i banchi di assaggio delle 170 etichette di vini sardi selezionati da Vinodabere nella prima iniziativa romana dedicata interamente ai vini isolani ed ospitata all’Hotel Belstay.

“Per tutti i sardi il Mandrolisai vuol dire vino”,

ci spiegano dalla cantina Fradiles, che produce 20 mila bottiglie all’anno di un Mandrolisai coltivato a 550 metri sul livello del mare, nella zona di Atzara, proprio sotto al Gennargentu, la montagna più alta della Sardegna.
Questa Doc territoriale ha già quarant’anni, ma ai non addetti ai lavori può accadere di sentirne parlare per la prima volta, vista la poca pubblicità prodotta fuori dell’Isola.
Il Cru dell’azienda Fradiles è l’Angraris, che nasce da un vigneto vecchio ad alberello, nell’omonima zona, una delle più importanti del territorio per la produzione del Mandrolisai rosso Superiore. Questo rosso fa 30/36 mesi di maturazione in botti da 750 lt. e un ulteriore affinamento in bottiglia per 12 mesi: il risultato è un vino ampio e profondo,  caratterizzato da note speziate che ricordano la confettura di frutti di bosco, marcati sentori di tabacco e piacevoli sfumature di vaniglia.

Di grande struttura, il corpo pieno avvolge una notevole quantità di tannini maturi, che si affinano gradualmente con la permanenza in bottiglia rendendo l’assaggio molto più gradevole.

Conversare con Enrico Esu, tra un calice e l’altro, è stato un altro viaggio alla scoperta delle meraviglie, questa volta del Carignano del Sulcis, coltivato nella zona di Carbonia lungo una striscia di terreno sabbioso che si snoda per 10 chilometri, su 20 ettari di vigneto coltivato ad alberello e a piede franco, per resistere al grande caldo e al forte vento di maestrale.

“Nel 2015 – racconta Esu  – abbiamo deciso di dare nuovo vigore alle vigne vecchie piantate da mio padre, a partire dal 1958, e mai rimpiantate”.

Nel Sulcis iglesiente, per le condizioni climatiche meno favorevoli da giugno a settembre, il Cannonau non ha mai molto attecchito, e così la cantina Esu ha scelto di puntare sul Carignano, un prodotto di nicchia proveniente da un vitigno antichissimo e generoso, conosciuto da oltre duemila anni e molto probabilmente introdotto nell’isola di Sant’Antioco dai Fenici e poi coltivato anche in questa terra di miniere da diverse centinaia di anni.

Il procedimento utilizzato per il Carignano è quello tradizionale, che prevede la selezione naturale delle uve, sottoposte poi ad un processo di invecchiamento in grado di garantire un prodotto di qualità. “I cloni sono stati adattati al clima della zona”, spiega Esu:

”Le nostre vigne sono senza impianto di irrigazione, perché le radici grazie al terreno sabbioso possono spingersi a fondo per cercare il nutrimento”,

anche nei torridi periodi estivi in cui le temperature possono raggiungere i 40 gradi. “La nostra – conclude Esu – è una cantina nata per salvare le vigne. Facciamo 10mila bottiglie l’anno e il nostro Carignano, una volta imbottigliato, ha un potenziale di invecchiamento di altri 10 anni”. Lo testimonia la morbidezza dei tannini, favorita dal riverbero dei raggi solari sulla maturazione dei grappoli, vicinissimi al terreno sabbioso.

Michela Nicolais

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