Vino per Roma

Roma è l’unica città che, oltre a disporre come tutte le altre città del mondo di un aggettivo che ne indica gli abitanti, gode del privilegio di un altro aggettivo che ne connota le eccellenze e le tipicità del territorio.

Ed è partito proprio dalla differenza tra “romano”, inteso come abitante di Roma, e “romanesco” il dibattito di una delle giornate che al Giardino delle Fontane dell’Eur ha scandito “Vino per Roma”, cinque giorni in cui i rimandi tra cibo e vino hanno portato gli addetti ai lavori e i frequentatori dell’evento a riflettere su quanto ancora Roma e il Lazio possano e debbano fare per far conoscere – non solo ai turisti, ma in primo luogo a chi abita questo territorio – il romanesco come “way of life” da valorizzare nei calici e nelle tavole.

Romanesco vuol dire “alla maniera dei romani”, e dunque è un aggettivo che non riguarda solo alcuni prodotti alimentari rinomati (come il carciofo o la zucchina) ma appartiene a quel “soft power” tipico della cucina romana che con un pizzico di furbizia riesce a fare da esca per far tornare i turisti in città. “Carbonara, matriciana, gricia, cacio e pepe sono piatti che noi ristoratori utilizziamo come veri e propri jolly con i quali siamo sicuri di vincere, sono sicuri di vincere”, ha raccontato Paolo Cacciani, dell’omonimo ristorante di Frascati che oltre ai romani intrattiene in tavola gli stranieri con la complicità della cucina romanesca tramandata da generazioni. Il perfetto abbinamento dei piatti della cucina romanesca è quello con i vini laziali, come il Roma doc, la Malvasia Puntinata o il Bellone, che nella manifestazione dell’Eur hanno animato gli stand e le degustazioni. “Quando li metti in tavola, la bottiglia finisce sempre”, ha assicurato Cacciani: “Come succedeva con i carrettieri a vino, che dai Castelli Romani venivano verso Roma”. Eppure, nei ristoranti e nelle trattorie della Capitale, come in quelle del resto della regione, le etichette laziali sono poco diffuse e a volte quasi introvabili.

Come si spiega questa contraddizione? “Con la mancanza di consapevolezza di ciò che si è ”, ha spiegato Ernesto di Renzo, antropologo dell’Università di Tor Vergata: “La viniviticoltura mondiale ha un grande debito con Roma. La diffusione della vitivinicoltura in tutto il mondo è infatti opera dei legionari romani, che subito dopo aver tracciato il cardo e il decumano piantavano una vigna. Roma caput vini, insomma: tutto il Nord Europa ha avuto il vino da Roma”. Discorso analogo per la cucina romanesca, la cui singolarità sta nell’essere bifronte: aristocratica e nello stesso tempo popolare, senza nessuna frattura, anzi con una grande continuità, tra queste due classi sociali.

“Il quinto quarto esiste perché c’erano ceti che domandavano eccessi di parti nobili, e il popolino romano ha beneficiato di questa eccedenza trasformandola in una gastronomia che piaceva anche alle classi elevate”, ha spiegato Di Renzo, facendo notare che ancora oggi a Roma ci sono locali di altissimo lignaggio che fanno cucina popolare e locali popolari che fanno cucina raffinata. Quale può essere il futuro del romanesco, nel calice e nella tavola? Di Renzo lo sintetizza in uno slogan: riscoprire la ruralità. “Roma – spiega – ce l’ha dentro. Ha un rapporto dialettico con la campagna, che è al suo interno e non fuori. Perfino una parte della toponomastica è dedicata all’agricoltura. La ruralità fa parte della dinamica di Roma, che è stata creata dal solco di un aratro”.  E allora: “Venite a Roma e scoprirete la campagna!”.

Michela Nicolais

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